E' morto Giorgio Bocca. Per ora sui giornali i commenti sulla fine del grande giornalista sono unanimi almeno nel sottolineare l'ampiezza della carriera del vecchio piemontese. Ha avuto sicuramente il privilegio e il merito di aver trascorso una vita lunga e attiva fin quasi alla fine (l'ultimo suo articolo è del 28 novembre). Quelli della sua generazione hanno avuto la fortuna e la disgrazia di vivere in pieno stravolgimenti che - forse - saranno irripetibili nei prossimi due o tre secoli. Non so se la sua, come scrivono i colleghi de la Repubblica o del Corriere, sia stata sempre una carriera 'al servizio della verità'. Però Bocca sembrava sempre scrivere ciò che riteneva fosse giusto, anche in momenti in cui gli sarebbe stato più comodo scrivere altro.
Sui giornali, nessuno o quasi ha menzionato i suoi trascorsi giovanili nel GUF e nella RSI - anche meno incisivi di quelli di tanti altri personaggi (Scalfari e Dario Fo, per fare un esempio). Per una volta, una dimostrazione di misura. Ovviamente non così è successo nella sezione commenti dei siti di informazione, nei forum e su Usenet. Questa estate per caso (ho trovato il tascabile a pochi soldi al supermercato) ho letto la sua autobiografia apparsa quasi 20 anni fa, il Provinciale. A proposito delle 'esercitazioni di memoria' di certuni, ne riporto l'inizio di un capitolo:
La notte era tiepida, il profumo degli eucalipti dava un po’ di capogiro, nella luce dei fari del taxi, guardavo la terra promessa. Ci fermammo a far benzina, la pompa era primitiva, un pilastrino, come nelle terre di frontiera, e stava sotto un grande cartellone in cui si vedeva Sansone sollevare la mascella d’asino per far strage dei Filistei. Si era nel 1956 ed era la mia prima volta in Israele, un viaggio per le memorie e le grandi favole dell’Antico e del Nuovo Testamento. Noi del vecchio mondo siamo abituati a vederlo, a sentirlo il mondo attraverso la storia e la letteratura, attraverso
la mitologia e le religioni, i viaggi nei paesi senza storia per noi sono come viaggi lunari. Pieno che fosse di cose vere o false, di storia o di leggenda, quel viaggio per le memorie era stupendo: mi indicavano un albero nel Negev ed era il tamerisco di Abramo, vicino a Eilat in una gola selvaggia prendevo fra le dita i resti di fusione delle miniere di re Salomone, camminavo per i campi bruciati di Sodoma e Gomorra, mi sedevo sotto gli ulivi dell’orto di Getsemani, salivo al Golgota, mi fermavo nella sala dell’ultima cena e i problemi politici e militari di Israele, le sue grandi anomalie si appannavano in quei miei sentimenti e commozioni di provinciale che ritrovava le Vie Crucis delle sue povere chiese alpine, i
palmizi, i turbanti, i cammelli arrivati con la fede nelle nostre valli. Israele
era appena uscita dalle battaglie furibonde per la fondazione, sulla strada fra Tel Aviv e Gerusalemme si vedevano ancora carcasse di autoblindo, di camion e il nostro modo di viaggiare in taxi come su un autobus, i primi sei della coda che salgono sullo stesso taxi senza conoscersi, sembrava un viaggiar militare, di reclute che raggiungono i reparti. Nei campi della Giudea c’erano le trincee come sul Pasubio o sull’altipiano di Asiago, nella striscia di Gaza i campi profughi mescolavano il loro odio all’odore acre del latte in polvere e della farina di pesce che marcivano al sole, doni non graditi delle Nazioni Unite. Eppure nel paese, nella gente c’era come un senso di pace dopo la tempesta, il sentimento di aver messo radice, di aver compattato la nazione.
Nelle città e nei kibbutz incontravo ebrei appena arrivati dall’Italia con cui si parlava di comuni amici, i Momigliano, i Levi di Torino; al ministero degli Esteri avevo incontrato un Segre che aveva diviso con me per qualche giorno il gelido alloggio della indomabile Emma Sacerdote, a Torino, via Legnano, inverno del ‘46. Ebbi un breve amore con una hostess della El Al.
Non era bella, soffriva di asma e mi portava in alberghi che a lei dovevano sembrare bellissimi, alberghi di lusso per ebrei americani con candelabri a sette braccia dovunque, in sala da pranzo, nelle stanze, nei corridoi. Sale da pranzo piene di turisti che fingevano di essere di stretta osservanza, con la calotta nera in testa e il cibo rigorosamente kasher, appena arrivati dagli hamburger sanguinolenti di Manhattan. Il rimorso dell’Europa per il genocidio era talmente vivo che le ragioni e i torti di Israele non venivano neppure messi in discussione, gli arabi esistevano solo come testarda retriva
presenza che ostacolava la buona opera riparatrice dell’Occidente.
Viaggiavamo per quella Israele come per il paese modello, della vera
democrazia, del vero socialismo, dell’elezione millenaria, delle grandi
favole religiose arrivate fin nei tabernacoli delle nostre Alpi. Ogni incontro era familiare ed esemplare, loro si sentivano magnanimi concedendoci il loro perdono e noi mondi di colpe, di nuovo fratelli. Così mi colpì come una frustata quel barista di Gerusalemme che mi chiedeva: Di dove sei tu,francese?. No, italiano. Beato te, voglio venire anche io presto in Italia, fuori da questo paese di merda.
In Israele sono tornato nel ‘61 e ci sono stato tre mesi per il processo
Eichmann, l’Obergruppenfuhrer Adolf Eichmann, l’ufficiale nazista che agli ordini di Heydrich aveva organizzato e fatto eseguire la soluzione finale decisa in una riunione a Wannsee, lo sterminio di milioni di ebrei. Lo avevano catturato in un sobborgo di Buenos Aires, portato in Israele in aereo e ora lo processavano nella sala della Beit Haan circondata da filo spinato e da fortini, come se fosse possibile, immaginabile un assalto per liberarlo. Lo facevano entrare in una gabbia di vetro antiproiettile, sembrava che su quel palcoscenico stesse per cominciare uno spettacolo di alta prestidigitazione, un drappo scuro sulla gabbia e zac Eichmann sarebbe scomparso. Ma in pochi giorni la gabbia dell’uccello-diavolo si trasformò in un lindo, efficiente ufficio dell’RSHA 4 l’ufficio centrale di sicurezza del Reich con cui il grande burocrate della morte aveva eseguito l’operazione, tutto in ordine, la cuffia per ascoltare, i tre microfoni per parlare, i blocchetti di carta, le matite appuntite, i quaderni, le cartelle e appena il pubblico accusatore o un testimone o il presidente facevano un nome le sue dita magre correvano sicure a una delle cartelle scritte in nero, numerate in rosso, catalogate in blu. Era un signore di mezza età con radi capelli di un biondo sbiadito, viso magro, occhiali a lenti spesse. Indossava un abito grigio ferro con cravatta dello stesso colore, chissà le visite del sarto per le misure nel carcere di grande sicurezza, chissà la toilette del mattino, lui che
si sbarbava con il rasoio, elettrico, si intende, che si metteva in ordine per una rappresentazione che sarebbe finita nella morte. Eichmann era un mostro nel senso che era il prodotto perfetto fino alla mostruosità di una burocrazia partita per la tangente del non ritorno, della disumanità, meccanismo di alta precisione dietro un’idea folle, la rigenerazione razzistica del mondo. Ma processarlo per una mostruosità collettiva, una degenerazione della cultura romantica, una oscura intuizione di futuri conflitti per la sopravvivenza fra le razze era come chiedere ad Attila, a lui solo, di rispondere delle invasioni mongoliche, a Napoleone, a lui solo, di rispondere delle guerre europee dopo la rivoluzione francese. Per Israele il processo monstre, seguito da cinquecento giornalisti, andava fatto per tante ragioni più o meno nobili: rinserrare l’unità degli ebrei arrivati da molte contrade, anche da quelle in cui non c’era stata persecuzione, per fargli capire che l’Olocausto era la loro storia comune e farglielo capire ogni giorno con le voci del processo che arrivavano per radio in ogni casa, dal medico che curava un paziente, dal bottegaio nel suo negozio, dai contadini dei kibbutz, dagli impiegati per coinvolgerli tutti nel ricordo e nella maledizione. Ma anche usarlo in politica estera, per rafforzare il rimorso dell’Europa, ottenere aiuti dall’America e dalla nuova Germania cui non si chiedeva il prezzo totale, non quantificabile, del genocidio, ma indennità utili al giovane Stato. Era un processo carico di tutto il sangue e la violenza del mondo, ma anche artificioso e per certi aspetti assurdo. Leggi, procedure, liturgie venivano calate in una materia magmatica: Si proteggeva con ogni cura la vita di un imputato già condannato a morte sicura, già penzolante dalla forca segreta nella tunica rossa dei condannati a morte. Gli venivano fatte domande di cui tutti conoscevano le risposte a cui lui dava precise dettagliate conferme, perché su una cosa tutti, giudici, testimoni, imputati, pubblico erano d’accordo, il genocidio c’era stato, di quelle spaventose dimensioni, e Adolf Eichmann ne era stato il capostazione, il suo potente ricchissimo dipartimento dalla sigla a formula chimica RSHA 4 aveva proprio usato le tecniche, la logistica, il segreto di cui tutti ora sapevano. In una sola cosa lui non era d’accordo con gli altri: non si riteneva colpevole, credeva di aver semplicemente obbedito. Al massimo ammetteva di aver appartenuto, anima e corpo, alla inappellabile gerarchia della morte.
Un giorno disse: Sono stato educato fin dai più teneri anni a una obbedienza cadaverica. Cadaverica? fece il presidente. Cosa vuol dire? É una espressione tedesca, signor presidente, per dire fino alla morte. A quei tempi se mi avessero detto che mio padre era un traditore e che dovevo ucciderlo lo avrei fatto senza esitare. Potrei considerarmi colpevole se tutti coloro che agirono con me e come me non vivessero in libertà. E a dargli ragione, su questo punto almeno, erano proprio i più accaniti accusatori, i testimoni, i sopravvissuti che chiudevano quasi sempre gridando al suo indirizzo: Lui e gli ottanta milioni dei suoi accoliti, la Germania che aveva fatto finta di non sapere, di non vedere.
I giudici, gli avvocati israeliani erano persone colte ma di una cultura
ambigua, in parte laica, in parte religiosa. Sapevano, lo si capiva da certi interventi, che non era possibile processare in un uomo l’irrazionale della storia, ma i cinquemila anni di religione e di elezione che avevano alle spalle gli impedivano di accettare la casualità e la irresponsabilità della storia; gli imponevano di credere, ad un tempo, che questo come gli altri olocausti era stato una punizione divina, una espiazione, e che però andava punito secondo la giustizia rigorosa, implacabile, impietosa del dente per dente. E si trovavano di fronte alla contraddizione di dover processare e condannare l’Eichmann strumento di Dio. Si dica poi che il processo era
così lungo che non era possibile ogni giorno riflettere su queste
contraddizioni di fondo, si tirava avanti episodio per episodio, ma era come ridurre il diluvio universale a una serie di bufere, di rastrellamenti, di deportazioni che il meticoloso Eichmann tendeva a ridurre a memoria amministrativa: Sì, quella volta mi trovai in grande difficoltà perché la Wermacht mi aveva requisito i carri ferroviari, No, degli ebrei romani non me ne sono occupato personalmente, provvide il colonnello Kappler. Così preciso, così formale che sembrava esser tornato indietro negli anni, al vecchio ufficio emigrazione che favoriva l’espatrio degli ebrei, prima che Hitler cambiasse idea; davvero un estimatore del sionismo, lo aveva studiato a fondo, era stato anche a Gerusalemme, così collaboratore e gentile, allora, il dottor Eichmann, prima che il Führer cambiasse idea. Come non bastasse la suggestione oscura di questo uomo robotico gli avevano dato come avvocato difensore un tedesco di nome Servatius, nomen omen, che ogni tanto faceva delle domandine innocue a cui da ogni parte si rispondeva con fastidio e sprezzo. Ma lui, ogni volta, si inchinava ringraziando. Con il passare dei giorni un processo che nelle prime udienze ci aveva colmato di terrore e di orrore divenne una routine a cui si adeguavano giudici, giornalisti, telefonisti, guardie e ospiti, gli scrittori, i politici, gli imprenditori in visita d’affari o turistica o di lavoro a cui procuravamo gli ingressi come a Milano nei palchi alla Scala. Capitò anche Alberto Sordi che stava girando nel Negev con David Niven I due nemici. Per scherzo magari un po’ pesante a tavola mi misi a fare il difensore di Eichmann e lui da plebeo romano che non vuol finire nei guai taceva o usciva in qualche ammazzete che poteva voler dire tutto e niente. Poi per cavarsela fece una imitazione perfetta di Eichmann e diceva: Lo vedi il tremolio del sopracciglio? Ma se facessi la sua parte in un film direbbero che carico.
Usavo gli intervalli per andarmi a misurare l’azotemia da un medico e
apprendevo con sollievo, paese che vai usanze che trovi, che una azotemia alta a Milano è normale a Gerusalemme. Il pomeriggio il tribunale riposava e noi prendevamo il sole nella piscina del King David o si andava a passeggio per le solitudini pietrose e luminose della Giudea, dove il cielo, come nei luoghi sacri, come a Roma, è basso che ti sembra di toccarlo con mano, specie nelle notti stellate. C’era il tempo per tante cose in quel lungo processo: farsi dare un aumento da Il Giorno dicendo di essere stato chiamato dal Corriere della Sera, cosa mezza vera e mezza inventata, tentare amori difficili con israeliane gentili e sfuggenti. Veniva a trovarci all’hotel, forse per vedere la piscina e la gente forestiera, una fanciulla da Cantico dei Cantici, sui sedici anni, bellissima, pura, radiosa, salvo il sabato perché abitava lontano, un impreciso lontano, e non poteva prendere l’autobus, fermo a Gerusalemme il sabato secondo la legge. Chiacchierava con noi per ore, ascoltava le nostre iperboli amorose divertendosi, ma come chi sfiora il proibito. Un’altra alloggiava al nostro piano, era una studentessa ricca in vacanza, ora gioiosa ora contegnosa, ma si aveva l’impressione che al dunque ci fosse in noi qualcosa di straniero, di goy che le fermasse. E magari erano solo fisime nostre, chi arriva in una società religiosa e razziale come Israele guerre e sciagure altrui le passa in continuazione dal
pregiudizio alla vere o false conferme del pregiudizio, e mentre riconosce l’eguaglianza dell’ebreo gli par di cogliere la sua diversità.
Il fascino di Israele, il solvente delle sue ferocie e arroganze e astuzie è questa sua umanità antica e un po’ esaltata, questo essere fortemente tutti i vizi e tutte le virtù dell’uomo, fortemente sessuali, fortemente casti, fortemente logici, fortemente religiosi, usciti da un genocidio e spesso tentati di commetterne uno con gli arabi. Noah, il padrone del ristorante La gondola, aveva sposato una italiana di Treviso che faceva una cucina veneta ma con profumi e aromi mediorientali - quell’odore dolce acre di Israele di eucaliptus e di benzina, di fiori e di bruciato -. Da giovane era stato nell’Irgun di Begin, le formazioni terroristiche che avevano fatto saltare il King David quando ci stava dentro il comando inglese, durante il protettorato. Faceva anche l’autista, mi portava in giro per Israele, non parlava del suo passato né di politica, anzi per chiudere in partenza ogni discorso faceva con la mano destra il gesto di chi sgozza e diceva soltanto: Arabo io così. Quando pensò che fossimo davvero amici ci portò a casa di sua madre, una ebrea spagnola, ci aveva preparato le uova cotte per due giorni, color violaceo. Buone, però.
Sono tornato in Israele nel gennaio del ‘64 al seguito di un prete bresciano, introverso, triste, diventato papa come Paolo VI. In una compagnia scombinata e divertente: Dino Buzzati, lo scrittore dei misteri, elegante e signore in qualsiasi turpe intreccio della vita, un cervello geometrico nella fantasia, una vocazione militare nella più totale libertà, un amico prezioso perché in superficie freddo, un confidente unico perché quasi sofferente per le tue confidenze, un uomo stupendo. Poi c’era Eugenio Montale, il poeta e prossimo premio Nobel, tutto nevrosi e paura di vivere e ancor più di morire, intelligenza dissimulata alla ligure, viltà illuminata dalgenio, Alberto Cavallari, un giornalista attore, tutto vibrazioni mimiche,
lampi intelligenti, ironie piacentine, la Camilla Cederna, gran donna, e don Pisoni, prete di corte, prete della borghesia ricca, di quelli che non capisci mai bene se sono davvero preti o recitino la parte del prete e non è poi una cosa strana, tutti nella vita un po’ sono un po’ ci fanno. E lui ci faceva a Roma, quando in attesa dell’aereo ci portava in visita a un suo istituto dei mutilatini per farci vedere il presepe con gli specchietti per fare i laghi e il muschio per fare i prati. Il gioco del prete e del peccato, dell’ecclesiastico e della tentazione è irresistibile quanto più è volgare e magari stupido. La prima sera a Beirut Cavallari ed io guidiamo la scombinata compagnia nel quartiere della vita notturna, in un night-club semideserto e triste. Don Pisoni indossa il clergyman e fa il disinvolto come i preti in imbarazzo, sorride alle entraineuse appollaiate sui loro sgabelli come uccelli tropicali dai colori violenti. D’improvviso una delle peccatrici, vestita di rosso splendente con una chioma altissima biondo platino, con forme straripanti, va a sedersi vicino a lui e gli parla a voce bassa, certamente per chiedergli di offrirle da bere, che è il suo mestiere, ma noi seguiamo il colloquio con tutti i retropensieri su preti e perpetue amanti, monache di Monza, frati del Decameron, e a quante volte? al confessionale.
Il viaggio del papa nelle terre degli infedeli, ma anche terre del Cristo, fu un susseguirsi di stupendo e di ridicolo. Paolo VI arriva ad Amman alle ore 13.15 del 4 gennaio: un vento gelido scende dalle colline - c’è la neve, la sorpresa della neve sulle montagne verso Petra - e sul mar Morto il cielo si oscura per una tempesta di sabbia, già i soldati della legione beduina, guardia fedele del re, si sono coperti la bocca con la djellabia bianca e rossa, già le monache dell’ospedale cattolico si sono strette il velo nero sul soggolo. Tutti fermi nel gelo, in file concentriche. Ma appena il papa scende dall’aereo in mantello bianco e cappello rosso le file si rompono, si mescolano, è un arrembaggio di preti, soldati, dignitari, vescovi copti, sacerdoti di tutte le religioni con mantelli neri, viola, verde marcio, rosa, con rami d’olivo, bandierine, turiboli. Un confuso corteo parte scortato dai circassi a cavallo della guardia reale in giubba rossa verso la polverosa confusione di Amman, montagna traforata dalle grotte come i sassi di Matera, il termitaio cencioso della periferia, la folla variopinta del suk, le palazzine del quartiere diplomatico ma nelle strade bidoni abbandonati, cani, ferrivecchi, stracci stesi ad asciugare; per un attimo la visione del teatro romano scavato nella montagna e via fra suoni di clacson, urli di poliziotti, grida in milanese dei pellegrini lombardi fino a imboccare la strada che scende al mar Morto. E dal grande cafarnao si passa al silenzio del deserto, scendiamo verso la profondità del mar Morto dove l’antica crosta del mondo appare come nei giorni della creazione. Sulle dune che fiancheggiano la strada, ogni cinquecento metri, figure nitide nel cielo i legionari giordani. Gli israeliani ci aspettano al passo di Tanach, nella notte i soldati hanno tolto i reticolati, ci guardano passare in silenzio. Il presidente di Israele Schasar è a Megiddo, le colline su cui hanno combattuto i re di Giuda e i faraoni, i crociati e gli ittiti, proprio da quel pianoro calavano a valle i carri falcati del re Salomone. Ed eccoci a Gerusalemme, all’evento atteso da due millenni: un papa di Roma entra nella città in cui è nato il cristianesimo, si avvicina alle mura della città che nelle generazioni ha significato sogno e speranza, sale a Gerusalemme anche lui come nella preghiera degli ebrei della diaspora, nelle luci grigie e d’oro del tramonto è sotto la porta di Damasco, mura gremite come nel momento culminante di un assalto crociato ma la gente non impugna falci o spade, ma foglie di palma, bandiere, pellegrini italiani in mezzo alle tuniche bianche degli arabi,
festoni di lampade accese, i flash dei fotografi come i lampi di un temporaleestivo e nella calca il povero don Macchi, segretario del papa, perde gli occhiali e li ritrova calpestati, sbriciolati. Quel viaggio in Terrasanta era finger di esser padroni in casa d’altri, neppure ben disposti. Gli israeliani ospitavano Paolo VI con freddezza glaciale, non amavano il papa di Roma in genere e meno che mai questo che aveva simpatizzato più volte con ipalestinesi e non aveva riconosciuto Israele. La visita era oggettivamente imbarazzante per i padroni di casa, avrebbero dovuto fingere interesse, commozione per la rivisitazione di luoghi cristiani che per essi hanno scarsointeresse, tutt’al più turistico. Luoghi come Betlemme, come Nazareth, come la stessa Gerusalemme che nella storia dei padroni di casa erano
cristiani quasi incidentalmente, per uno dei cento, dei mille profeti che quiavevan predicato. Si erano aggregate al nostro corteo giornalistico due belle e ricche signore milanesi che si divertivano un mondo in quel bailamme; meno le volte in cui per un repentino inseguimento al papa venivano abbandonate in riva al Giordano o sul lago di Tiberiade, ma non c’era da preoccuparsene, erano giovani e belle, qualcuno che ce le riportava lo trovavano sempre. Fu un viaggio in cui fede e miscredenza camminavano assieme. L’evento c’era, carico di grandi suggestioni, guardavamo il papa di Brescia e pensavamo che lui come noi stava confrontando i luoghi, i cieli, i colori della grande favola cristiana con quelli reali. Ma i luoghi reali avevano rispondenze alterne, a volte sembravano combaciare esattamente con la grande favola, a volte ne restavano lontani, e come in una dura smentita, Nazareth e la casa del Cristo per esempio, bastava dare un’occhiata per capire che il villaggio era stato rifatto cinque o sei volte, che la casa del Cristo era un posto inventato per venderci medagliette e santini.
Ci fermammo sulla strada di Nazareth in un convento di suore, e Paolo VI, pallido, magro, triste, sempre più afflitto per la gelida accoglienza, non degna di un’occhiata la mensa e si ritira in camera. Le suore amano il papa ma sono disperate, hanno preparato gli agnolotti per lui e per il seguito e un cristiano gli agnolotti non li butta via. Ma che si fa? Si può banchettare senza di lui? No, le mense vengono tolte, ma una suorina ci dice di passar dietro la casa dove c’è la porta della cucina, ci passano i piatti di agnolotti fumanti. Lui in camera ha bevuto una tazza di brodo e poi si è raccolto in preghiera. Durante la visita al Santo Sepolcro il ritmo frenetico, grottesco
con al centro quel viso scavato e triste di Paolo VI, ebbe momenti
irresistibili come in un film di Buster Keaton. Il Santo Sepolcro sta nel sottosuolo di un tempio equamente diviso fra le varie chiese cristiane: cattolica, copta, maronita, ortodossa. Quando il papa si affacciò alla porta, e noi ad attenderlo dietro un altare, un prete copto che stava officiando incominciò a urlare e a cantare come un pazzo, a lanciare in aria tutto quel che gli capitava sotto mano, cucchiaini, ostie, pissidi, libri con tale frastuono che gli uomini del servizio di sicurezza israeliano, che badano al sodo e non si perdono in consultazioni, ti afferrano il pontefice per le ascelle e
sollevatolo di pochi centimetri gli fanno percorrere come a volo radente, come i ballerini russi di Moiseev nella danza dei mantelli, i trenta metri per arrivare all’ingresso del Santo Sepolcro. Balziamo fuori dal nostro riparo e ci inabissiamo, prima che un poliziotto ci fermi, nella cappella del Sepolcro.
Mentre il papa si genuflette in adorazione ci guardiamo attorno: ci sono i due dei servizi segreti che guardano con occhio professionale tre frati cappuccini custodi della tomba, poi Cavallari ed io che passiamo per poliziotti in borghese visto che nessuno ci chiede chi siamo. E proprio mentre Paolo VI è in una sofferta preghiera, il più alto dei frati, un gigante si abbatte al suolo come una quercia colpita dal fulmine, il colpo del suo cranio sulla pietra rimbomba nella caverna, ma già incomincia a contorcersi, a spumare dalla bocca, a sbarrare gli occhi; a uno dei servizi che cerca di bloccarlo cade la rivoltella che rotola fino al papa genuflesso che al rumore si volta, dà un’occhiata triste, avvilita, come a dire non una mi va bene in questo viaggio, poi si rimette a pregare. Arrivano i rinforzi, il gigante epilettico viene estratto dalla grotta, portato nel vicino convento. Anche il prete copto è stato fermamente persuaso dagli israeliani a sgomberare il campo, può uscire anche il papa bresciano, terreo in volto.
Nel corteo giornalistico c’erano cristiani di ogni chiesa, anche predicatori protestanti americani. Una bellissima americana, sorella in Cristo, predicatrice di una chiesa del Minnesota, amava pranzare con noi che la corteggiavamo, e guardavamo la scollatura, le gambe senza che se ne risentisse e quando sul finire della cena e delle bottiglie sembrava quasi recuperata all’eros, con le gote infiammate dal buon vino di Askalon, gli occhi brillanti, si alzava, e con il seno proteso alle gioie del mondo ci chiamava a partecipare all’amore per il Cristo, alla gioia infinita di unirci nell’amore puro del Cristo, e la ciucca aveva su di lei un effetto edificante misticheggiante, solo che non riusciva con le sue polpe ben nutrite a levitare come le sante medievali, dovevano accompagnarla alla sua stanza, da cui giungevano, prima che la colpisse la botta di sonno, canti al divin amore. Il
sommo poeta Montale conosciuto da tutti noi per un anziano valetudinario
con scarsa vista e una gamba zoppicante, visto così le mille volte mentre arrancava in via Solferino o si muoveva nella penombra di via Bigli dove stava di casa, in Israele fu smascherato, anche se poi per un impegno tacito di affetto e di rispetto nessuno di noi rivelò mai la cosa.
Una sera avevamo fatto tardi a mandare per telex i nostri servizi
dall’ufficio israeliano di Gerusalemme, il solo che funzionasse; ma
dovevamo tornare al nostro albergo nella zona giordana e il coprifuoco stava per scattare proprio quando ci affacciavamo alla terra di nessuno. Le guardie giordane si misero a gridare per farci fretta e noi giovani, con l’egoismo dei giovani, partimmo di corsa e solo dopo cinquanta metri Ci ricordammo del povero vate claudicante, ci voltammo e lo vedemmo che correva a lunghe falcate.
Vengo di nuovo in Israele nel ‘67 per la fulminea guerra dei sei giorni.
Strana guerra per noi giornalisti, Moshe Dayan e Sharon pensavano solo alla guerra lampo, noi eravamo una presenza trascurabile, di cui occuparsi a cose fatte. Andavamo al fronte partendo dall’hotel Dan come si va a una fiera contadina o, in America, a un rodeo. Ero su un’auto da noleggio con due colleghi francesi e un autista, Josef, magro con occhi nerissimi e un pistolone alla cintura. La strada per Gaza era un pandemonio, sembrava la strada di una confusa ritirata, non di una avanzata fulminea ma così fulminea da costringere i riservisti richiamati alle armi a raggiungere i loro reparti come potevano, su autobus, motociclette, auto. E sul ciglio della strada erano fermi in attesa di un passaggio altri uomini usciti in armi dai kibbutz, dalle case, e sorridevano se li tiravamo su. Solo a una piccola mescita di gazose un soldato venne ad annusarci, ma dovevamo avere un
puzzo affidabile perché non insistette. Fummo fermati a pochi chilometri da Gaza già occupata e superata dai reparti corazzati, ancora proibita a noi per i campi minati. Ma quelli di Paris Match dovevano arrivare a Gaza in giornata per far avere per primi alle lettrici di Chalon-sur-Saone o di Montpellier le fotografie della prima città conquistata da Israele. Non vedemmo la fiammata, sentimmo l’esplosione che arrivava da dietro una duna di sabbia. Già, si può morire per una fotografia, la morte coglie tutte le occasioni, anche quelle che non c’erano quando cominciò il suo lavoro. Le prime sere in due ore d’auto si tornava all’hotel Dan a Tel Aviv e la guerra era lontanissima come su un altro pianeta. Dalla mia stanza sentivo il ticchettio delle macchine da scrivere dei colleghi di ogni paese che raccontavano la guerra che non avevano visto, salvo che per qualche fiammata o rombo lontano; la moquette era morbida, il frigo bar ben servito, ci si trovava a pranzo nella sala luminosa con i candelabri a sette braccia.
Quando Moshe Dayan e il suo braccio destro Sharon furono arrivati al canale di Suez, in cinque giorni, l’ufficio stampa di Tsahal, dell’esercito israeliano, si fece vivo, ci caricò sui camion militari e ci portò a visitare i campi di battaglia del Sinai. Nel deserto, nella sabbia le guerre sono pulitissime, quasi asettiche, il sole e il vento fanno sparire i cadaveri, le carcasse dei carri armati sembrano lì da sempre, grandi insetti di acciaio usciti da qualche fenditura della terra. C’erano invece, nella sabbia, centinaia di scarpe a collo alto e non si capiva perché gli egiziani in fuga se le fossero tolte, forse erano contadini abituati a camminare a piedi nudi.
Circolava già l’atroce storiella dell’intelligence israeliana che aveva intercettato le comunicazioni radio dei consiglieri militari sovietici di Nasser, che al cominciare della rotta egiziana si informavano: I negri scappano. Nel deserto del Sinai e lungo il canale ci appariva un volto nuovo di Israele, il volto di Davide. Per la prima volta gli uomini di Tsahal ostentavano modi rudi e quasi arroganti come volessero farci capire: ecco cosa siamo noi, i sabra di Israele, non gli umili prudenti sfuggenti ebrei della diaspora, non gli ebrei timorosi conosciuti a Milano a Parigi a Vienna con cui parlate solo di libri e di musica, ma dei soldati, dei combattenti. Dei veri soldati avevano la rudezza, sul canale ci fecero dormire all’aperto sulla sabbia, faceva un freddo cane e lo facevano apposta per farci capire che non ci corteggiavano, che dovevamo partecipare all’ammirazione del mondo intero. All’alba eravamo già in piedi per il freddo, ma non ci passarono
neppure una tazza di caffè, dovevamo capire che la guerra è una cosa dura.
E ogni generazione che fa la sua guerra è convinta che gli altri la guerra non sappiano cosa sia. Il mattino era splendido, si vedevano sull’altra riva del canale le postazioni egiziane silenziose nella tregua; una nave era affondata nel canale, ma non si vedeva l’acqua da dove eravamo, sembrava affondata nella sabbia. Poi ci portarono al comando di armata per una conferenza stampa che era una celebrazione della gloria militare di Israele. Sotto la grande tenda erano già seduti nelle prime file degli ebrei americani, uomini e donne, orgogliosi del loro popolo guerriero. Il generale Sharon sembrava MacArthur dopo la battaglia delle Midway, parlava con lentezza sicura,
ripercorreva su una carta con una cannetta le linee dell’avanzata, gli ebrei americani pendevano dalle sue labbra, i loro petti erano gonfi di orgoglio dopo tanta sopportazione e prudenza, quando Sharon finì ci fu un grande applauso. In quella festa militare c’era però qualcosa di rimosso, di non detto: sembrava che gli israeliani non si ponessero il problema politico di occupare territori arabi, di amministrare municipi arabi, di cercare una pace stabile con il mondo arabo, con i cento milioni di arabi, sembrava che tutti questi problemi fossero dati per risolti e di certo chiunque tentava di dissotterrarli veniva guardato come uno ostile a Israele. Eppure era facile capire cosa sarebbe accaduto nei territori occupati, molto facile per uno come me passato per una guerra partigiana: il silenzio della gente, le porte chiuse al nostro passaggio, i bambini che ti dicono con gli occhi: andatevene via, questa è casa nostra. Scrissi queste cose e due giorni dopo ricevetti uno strano telex da Pietra: Servizio ottimo ma adesso è meglio che rientri. Non capivo, lo chiamai al telefono, gli dissi che non potevo piantare il servizio ametà, che c’erano cose interessanti da scrivere. Se vuoi disse lui titubante.
Capii il perché solo al ritorno in Italia. La signora Ravenna del centro di documentazione ebraico aveva iniziato la sua campagna di ricatto e di intimidazione verso i giornalisti, aveva trovato negli archivi una mia recensione ai Savi di Sion, una denuncia dell’imperialismo sionista, apparsa su La Sentinella delle Alpi giornaletto cuneese nel 1939, che era un sunto nudo e crudo del testo che non sapevo apocrifo e che comunque non mi importava che lo fosse, dato che era una recensione chiestami dal federale per uno dei soliti ordini giunti da Roma. L’avevo completamente rimossa, ero stato vicino agli ebrei di Cuneo durante la persecuzione, vicino durante la guerra partigiana, amico dopo, mi sembrava che quel ritaglio fosse saltato
fuori dal cilindro di un prestigiatore. Ma c’era e la Ravenna mi perseguitò per anni. Andò subito a mostrarlo a Pietra quando nelle mie corrispondenze incominciai a scrivere dei territori occupati, e poi per anni a qualsiasi dibattito andassi li vedevo seduti in prima fila, lei o un suo incaricato, con nelle mani i volantini che riproducevano la recensione, e finalmente imparai a liberarmene dicendo così, subito: Vedo in prima fila la signora Ravenna del centro di documentazione ebraico che è qui per rivelarvi che sono stato nel Guf e che ho scritto una recensione ai Savi di Sion. Ci scherzavo anche con gli amici ebrei di Milano e di Courmayeur ma coglievo sul loro viso come un riflesso condizionato: va bè non parliamone, ma l’hai scritta.
In casa ho un altro libro con la prefazione di Bocca. E' 'Hotel Meina' di Marco Mozza. Un libro dedicato dall'autore proprio alla 'signora Ravenna'.