La notizia - per quanto ne so - è apparsa solo brevemente nella stampa locale ma giusto un mese fa lo storico e filosofo Ernst Nolte è stato duramente contestato in occasione di una sua visita a Trieste. Sui modi più o meno urbani della contestazione lascio parlare il video linkato a Youtube - le accuse rumorose sono le solite, nazista, fascista e chi più ne ha più ne metta.
Nolte è un anziano professore emerito di 86 anni, che del fascismo e del nazismo è stato il primo studioso non marxista degno di nota, e che in realtà era venuto in Italia per parlare della caduta del muro di Berlino (cfr. http://www.youtube.com/watch?v=lvT9_TGC030 e video segg.), non di avvenimenti precedenti o di politica.
Il motivo dell'accanimento degli studenti triestini risiede in una polemica risente ormai a quasi un quarto di secolo fa, la cosiddetta Historikerstreit, svoltasi in Germania. Se ben ricordo se ne ebbe ai tempi qualche eco anche in Italia. Ma dubito che i "ragazzi di oggi" che si agitano così coraggiosamente abbiano un'idea anche minima di cosa si trattava. Gli basta con ogni probabilità scattare di fronte alla magica parola "revisionista".
Nel caso a qualcuno interessi, la "lite tra storici" nacque proprio da un famoso articolo di Nolte pubblicato nel 1986 dalla Frankfurter Allgemeine Zeitung. Qui il testo originale tedesco.
E qui sotto la mia modesta traduzione italiana dello stesso articolo, se interessa ai suddetti gggiovani. O ad altri, chissà...
N.B. L'articolo risale appunto al 1986 - molti degli scalmanati di Trieste non erano ancora nati all'epoca. Ho messo un po' di link alla wikipedia a mo' di note a pie' pagina, per far capire il contesto.
Ernst Nolte: Il passato che non vuole passare. Un discorso che può essere scritto, ma non può essere tenuto.
Con “passato che non vuole passare” si può solo intendere il passato nazionalsocialista dei tedeschi o della Germania. Il tema implica la tesi che normalmente ogni passato trascorre e che il suo eventuale non-trascorrere sia qualcosa di eccezionale. D’altra parte il normale trascorrere del passato non può essere considerato uno scomparire. L’epoca di Napoleone I è sempre presente in qualche modo nel lavoro degli storici e così il periodo classico augusteo. Ma questi passati hanno evidentemente perso l’insistenza che avevano allora per i contemporanei. E' anche per questo che possono essere lasciati agli storici. Invece il passato nazionalsocialista non sottostà, come ha recentemente sottolineato Hermann Lübbe, a questo indebolimento, a questo processo di deintensificazione, ma sembra diventare sempre più vitale e pieno di forze, non come modello, e non come modello positivo ma negativo, come un passato che si ristabilisce direttamente come un presente, o che come la spada di un carnefice è sospeso sul presente stesso.
Immagini in bianco e nero.
Per questo stato di cose ci sono buone ragioni. Tanto più che senza dubbio la Repubblica Federale Tedesca e la società occidentale sono diventate soprattutto “società del benessere”, tanto più distante diviene l’immagine del Terzo Reich con la sua ideologia guerresca di prontezza al sacrificio, dello slogan ‘Cannoni invece di burro’, delle citazioni dall’Edda (“la nostra morte diventa una festa”) cantate ad alta voce nei cori scolastici. Oggi tutto sono pacifisti per principio, ma allo stesso tempo non possono guardare a distanza sicura il bellicismo dei nazionalsocialisti, perché sanno già che entrambe le superpotenze anno dopo anno spendono più per gli armamenti di quanto Hitler abbia speso negli anni 1939-1945. Rimane così un’insicurezza di fondo che porta ad accusare il nemico nella chiarezza invece che nella confusione del presente. Qualcosa di simile accade col femminismo. Nel nazionalsocialismo il “culto della virilità” era ancora pieno di provocatorio orgoglio, mentre oggi si tende a nasconderlo e rinnegarlo – il nazionalsocialismo è anche il nemico di oggi nella sua ultima, ancora del tutto irriconoscibile manifestazione. La pretesa hitleriana a un “dominio sul mondo” si deve presentare in modo tanto mostruoso, quanto più si rende indubbiamente manifesto che la RFT è in grado di assumere nella politica mondiale un ruolo in ogni caso degno di un paese di media importanza – e allo stesso modo non può certo parlare di “inoffensività”, e da molte parti è ancora vivo il timore che essa possa essere se non la causa, perlomeno certo il luogo dello scoppio di una terza guerra mondiale. Più di tutto il resto è il ricordo della “Soluzione Finale” a contribuire al non-trascorrere del passato, poiché la mostruosità dello sterminio su scala industriale di diversi milioni di persone doveva diventare tanto più inconcepibile quanto più la RFT, attraverso la legislazione, si metteva all’avanguardia tra gli stati umanitari. Ma anche qui permangono dei dubbi e numerosi stranieri non credevano e non credono, così come molti tedeschi, all’identità tra “pays légal” e “pays réel”.
Ma non era proprio la testardaggine del “pays réel” ad essere il luogo abituale in cui questo non passare del passato era malvisto, e dove si voleva tracciare una riga di separazione, affinché il passato tedesco non si distinguesse più fondamentalmente dagli altri passati?
Non c’è forse un nocciolo di verità in molte delle discussioni e delle questioni che hanno come eretto un muro contro il desiderio di sempre più nuovi “ridiscussioni” del nazionalsocialismo. Elencherò alcune di queste discussioni o questioni, per concettualizzare quello che nella mia opinione è la decisiva “mancanza” che le rende tanto lontani dal “tracciare una riga” quanto dal continuamente invocato “superamento del passato”.
Proprio quelli che più spesso e con l’accento più negativo parlano di “interessi”, non rispondono alla domanda se nello stesso non-trascorrere del passato non ci siano o siano stati in gioco degli interessi. Come gli interessi dei perseguitati o dei loro discendenti ad ottenere un permanente status speciale o anche privilegiato.
I discorsi sulla “colpa dei tedeschi” mostrano anche troppo chiaramente similarità con i discorsi sulla “colpa dei giudei” che erano uno degli argomenti principali dei nazionalsocialisti. Tutte le accuse contro “i tedeschi” che arrivano dai tedeschi, sono insincere, perché non includono gli accusatori stessi, o i gruppi che rappresentano, e in fondo non vogliono semplicemente dare al vecchio avversario il colpo decisivo.
La rilevanza dedicata alla “soluzione finale” distoglie l’attenzione da importanti misfatti dell’epoca nazionalsocialista come l’eliminazione della “vita indegna della vita” o il trattamento riservato ai prigionieri di guerra russi, temi relativi a questioni decisive del presente – come la natura della “vita non ancora nata” o il verificarsi di “genocidi” ieri in Vietnam e oggi in Afghanistan.
L’accostamento di queste due linee di argomentazione, delle quali una sta in primo piano, ma non si può far valere completamente, ha portato a una situazione che si potrebbe definire paradossale o anche grottesca. Una precipitosa dichiarazione di un deputato riguardo certe pretese dei portavoce di organizzazioni ebraiche o lo scivolare in una mancanza di buon gusto da parte di un politico locale sono gonfiate in sintomi di “antisemitismo”, come se ogni ricordo del genuino e in nessun modo accettabile antisemitismo della Repubblica di Weimar fosse scomparso, e allo stesso tempo in televisione si mostra il commovente documentario “Shoah”di un regista ebreo che in certi passaggi rende evidente che anche le SS che gestivano i campi di sterminio a loro modo potevano a loro modo essere vittime e che d’altra parte tra le vittime polacche del nazionalsocialismo c’era un virulento antisemitismo.
Certo la visita del presidente americano al cimitero militare di Bitburg ha suscitato una discussione molto emotiva, ma di fronte al timore della “compensazione” e del confronto, nessuno si è posto la semplice domanda di cosa avrebbe significato se l’allora Cancelliere nel 1953 si fosse rifiutato di visitare il cimitero militare di Arlington, e invero con la motivazione che laggiù vi sono sepolti uomini che hanno preso parte agli attacchi terroristici contro i civili tedeschi.
Per uno storico è proprio questa la conseguenza più stringente del non-passare del passato: che sembrano non avere più validità le più semplici regole che valgono per ogni passato, che ogni passato deve divenire riconoscibile sempre più nella sua complessità, che i rapporti diventano sempre più visibili in ciò in cui sono relazionati, che le immagini in bianco e nero dei contemporanei che erano in lotta sono corrette, che le rappresentazioni precedenti sono sottoposte a un processo di revisione.
Sono proprio queste regole che, però risultano nella loro applicazione al Terzo Reich “pericolose per l’educazione popolare”. Non potrebbero portare a una riabilitazione di Hitler o a una “discolpa dei tedeschi? Non vi è la possibilità che i tedeschi si identifichino nuovamente col Terzo Reich, come hanno fatto a larga maggioranza perlomeno negli anni dal 1935 al 1939, e che non imparino la lezione che gli è stata impartita dalla Storia? Al riguardo si può rispondere nel modo più breve ed apodittico possibile: nessun tedesco vuole riabilitare Hitler, se non altro per l’ordine di annientamento contro lo stesso popolo tedesco dato nel marzo 1945. Che ai tedeschi siano impartite lezioni dalla Storia, non è garantito dagli storici e dai pubblicisti, ma dalla completa trasformazione dei rapporti di forza e dalle evidenti conseguenze di due grandi sconfitte. Ai tedeschi possono essere impartite sempre nuove false lezioni, ma solo in un modo, che può comunque essere nuovo ed “antifascista”.
E’ vero che con qualche sforzo non è mancato di delineare al di sopra del piano della polemica un’immagine obiettiva del Terzo Reich e del suo Fuehrer; basti ricordare i nomi di Joachim Fest e Sebastian Haffner. Entrambi hanno in prima istanza in vista “l’interiorità tedesca”. Con quanto segue cercherò, sulla base di alcune questioni e parole chiave di delineare una prospettiva nella quale questo passato dovrebbe essere visto, se essa deve rendere giustizia a ogni “pari trattamento”, che è un postulato teoretico della filosofia e della storiografia, che non conduce però ad un’equiparazione, ma proprio alla identificazione delle differenze.
Parole chiave rivelatrici.
Max Erwin von Scheubner-Richter, che più tardi divenne uno dei più stretti collaboratori di Hitler e che nel novembre 1924 fu colpito mortalmente da una pallottola durante la marcia verso la Feldherrnhalle, nel 1915 era console per la Germania ad Erzerum, in Armenia. Laggiù fu testimone oculare della deportazione del popolo armeno, che marcarono l’inizio del primo grande genocidio del XX secolo. Non mostrò alcuna fatica nel contrapporsi alle autorità turche, e nel 1938 il suo biografo terminò la descrizione di queste occorrenze con le frasi seguenti: “Ma cos’erano queste poche persone contro la volontà di annientamento della Sublime Porta, che evitava anche i più diretti ammonimenti da Berlino, contro la ferocia dei Curdi scatenati, contro quella catastrofe destinata a compiersi con mostruosa rapidità, in cui un popolo dell’Asia si scontrò con un altro in maniera asiatica, lontana dalla civilizzazione europea?”.
Nessuno sa cosa avrebbe fatto o permesso Scheubner-Richter se fosse stato nominato al posto di Rosenberg ministro per i territori orientali occupati. Ma non c’è molto che indichi una fondamentale differenza tra lui e Rosenberg o Himmler, o anche tra lui e lo stesso Hitler.Allora dobbiamo chiederci: cosa ha indotto uomini che sono stati in contatto così stretto con un genocidio che consideravano “asiatico” a iniziare loro stessi il compimento di un genocidio di natura ancora più terribile? Esistono parole chiave rivelatrici. Una di queste è la seguente.
Quando il primo febbraio 1943 Hitler ricevette la notizia della capitolazione della Sesta Armata a Stalingrado, disse subito nella riunione dello Stato Maggiore che alcuni ufficiali tedeschi presi prigionieri sarebbero diventati agenti della propaganda sovietica. “Immaginatevi che (uno di questi ufficiali) sia portato a Mosca che immaginatevi la “gabbia dei topi”. Allora sarà disposto a tutto. Firmerà confessioni, farà appelli…”
I commentatori scrivono che con “gabbia dei ratti” si intenda la Lubjanka. Ritengo che ciò sia falso. Nel “1984” di Orwell si descrive come l’eroe Winston Smith dopo una lunga tortura sia costretto a rinnegare la sua amata e con questo a rinunciare alla sua dignità. Gli si pone davanti al capo una gabbia piena di topi resi mezzi folli dalla fame. L’ufficiale interrogatore minaccia di aprire la gabbia: questo distrugge del tutto la volontà di Smith. Orwell non ha inventato nulla, questa storia si trova spesso nella letteratura antibolscevica sulla guerra civile russa, tra gli altri nelle opere dell’attendibile socialista Melgunow E’ attribuita alla “Cheka cinese”.
E’ un curioso difetto della letteratura sul Nazionalsocialismo che non si sappia o non si voglia sottolineare che in qualche misura tutto quello che più tardi i nazionalsocialisti hanno commesso, con l’unica eccezione del processo tecnico delle camere a gas, era già stato descritto in un’ampia letteratura risalente ai primi anni venti: deportazioni ed esecuzioni di massa, torture, campi di sterminio, eliminazioni di interi gruppi in base a criteri oggettivi semplicistici, pubbliche istigazioni all’annientamento di milioni di persone senza colpa, ritenute però “nemiche”.
E’ probabile che molte di queste descrizioni fossero esagerate. E’ sicuro che anche il “terrore bianco” si è reso responsabile di atti spaventosi, anche se nel suo quadro non si può fare alcuna analogia con la “estirpazione della borghesia”. Ma allo stesso modo la seguente domanda è lecita, anzi inevitabile: i nazionalsocialisti hanno commesso un misfatto “asiatico”, Hitler ha commesso un misfatto “asiatico” solo perché consideravano loro stessi e i loro simili come potenziali o sicure vittime di un altro misfatto “asiatico”? Non è venuto prima l’”Arcipelago Gulag” di “Auschwitz”? Non era “l’omicidio di classe” dei Bolscevichi il logico e fattuale a priori dell’”omicidio razziale” nazionalsocialista? Non sono gli atti più segreti di Hitler da compredere anche e soprattutto perché egli non aveva dimenticato la “gabbia dei ratti”? Auschwitz non è forse derivata nella sua origine da un passato che non voleva passare? Non c’è bisogno di leggere l’opuscolo dimenticato di Melgunow per porsi queste domande. Ma si evita di porsi queste domande, ed io stesso per lungo tempo ho evitato di farlo. Sono considerate tesi anticomuniste o il prodotto della guerra fredda. Non sono adatte alla specialità, che deve sempre scegliere formulazioni più strette. Ma sono basate su semplici verità. Evitare di proposito delle verità può avere delle ragioni morali, ma va contro l’etica scientifica.
I dubbi sarebbero allora giustificati stando di fronte a questi interrogativi e a questi elementi fattuali senza considerarli nel quadro di rapporti più ampi, ovvero nel quadro delle rotture qualitative nella storia europea, iniziate con la Rivoluzione Industriale, e che hanno sempre scatenato un’agitata ricerca dei “colpevoli” o proprio degli “originatori” di uno sviluppo ritenuto fatale. Proprio in questo quadro diverrebbe chiaro, che nonostante ogni similarità le azioni di annientamento biologico del nazionalsocialismo differiscono qualitativamente dall’annientamento sociale che era proprio del Bolscevismo. Ma così come un omicidio, per non parlare di un genocidio, non può essere “giustificato”, tanto più è fondamentalmente errato l’assunto secondo il quale si deve osservare solo l’omicidio o il genocidio senza considerare l’altro genocidio o omicidio, anche se è probabile un nesso di causalità tra l’uno e l’altro. Chi considera questa storia non come mitologema, ma se la pone di fronte agli occhi nel suo contesto essenziale arriva a una conclusione centrale: la storia deve avere un senso per i posteri, in tutta la sua oscurità e in tutto il suo orrore, ma anche nella confusa novità che si presentava ai contemporanei che la vivevano, può avere un senso solo se ci si libera dalla tirannia del pensiero collettivista. Allo stesso tempo questo dovrebbe significare il decisivo rivolgersi a tutte le regole di un ordine libertario, un ordine che permetta e incoraggi la critica, fintanto che questa critica si riferisce ad azioni, pensieri, tradizioni, anche a governi e organizzazioni di ogni tipo. Ma deve dare lo stigma dell’illegalità alla critica di categorie dalle quali gli individui non possono essere separati o possono esserlo solo con grande sforzo, così come la critica contro “gli” ebrei, “i” russi, “i” tedeschi, o “i” piccolo borghesi. Fino a quando la discussione sul nazionalsocialismo sarà marcata da questo pensiero collettivista, non sarà tracciata una riga finale. Non bisogna nascondersi che ci si potrebbe far prendere dalla sconsideratezza e dall’autocompiacimento. Ma non deve essere necessariamente così ed è lecito che la verità in ogni caso non dipenda dall’utilità. Una discussione comprensiva che deve anche prendere in considerazione la storia degli ultimi due secoli, porterebbe quel passato che è l’oggetto della presente discussione, finalmente a “passare”, come succede a qualsiasi passato, ma questo porterebbe precisamente ad appropriarsi del passato stesso.
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